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Tavolo Fundraising Culturale

I dialoghi col Direttore: lo speech di Paolo Giulierini

Assif Giulierini trascrizione

Il 20 maggio scorso alle 18:00 in diretta sulla pagina facebook di ASSIF è stato trasmesso il primo evento di una serie dal titolo “I dialoghi col Direttore”.

Per questo primo evento, ideato da Assif Campania e realizzato in collaborazione col Tavolo per il fundraising culturale, il nostro ospite è stato Paolo Giulierini, Direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli – MANN.

SPEECH DI PAOLO GIULIERINI:

La mia opera all’interno del MANN è andata sostanzialmente in due direzioni. Una interna di riorganizzazione che ha previsto un piano strategico-scientifico che prevedeva innanzitutto la riapertura di tutte le collezioni e l’apertura di nuove collezioni da completare entro la fine del doppio mandato (2023) quando avremo ben 20.000 m2 di superficie espositiva.

A questo si è aggiunta l’organizzazione dei servizi come la caffetteria (già operante) ed il ristorante che sarà messo a bando nel 2022.

Inoltre c’era la necessità di dare efficacia alla spesa dei fondi europei, con cui è stato aperto il braccio nuovo del MANN, dove sono presenti i laboratori di restauro, la sezione didattica ed un auditorium da 300 posti.

Infatti un museo non può avere solo collezioni ma deve avere anche luoghi di pausa, servizi, aree verdi (riapertura di 2 giardini, più il terzo in ristrutturazione).

Tutto questo perché per essere credibili all’esterno bisogna agire bene internamente, come ad esempio sulla spesa dei fondi.

Per comunicare tutto questo all’esterno abbiamo provveduto all’elaborazione di due pian strategici (2016-2019 e 2020-2023), rendicontati annualmente attraverso gli annual report per monitorare e censire quanto fatto, alla stregua di una grande azienda o di un museo internazionale. Questo è un atto di trasparenza verso la cittadinanza.

Il secondo grande obiettivo è stato quello di costruire una massa critica di relazioni culturali e sociali con la città di Napoli, con l’Italia, con l’estero. Ovvero il museo non come una torre d’avorio nella quale conservare la bellezza ma piuttosto come un’agorà da cui la bellezza esce fuori assicurandosi che il contesto intorno abbia le condizioni per poter partecipare a questa bellezza. La bellezza salverà il mondo solo se il mondo è in grado di percepirla e la bellezza consiste anche nel mettere tutti in condizioni di fruirne.

Il MANN avrebbe perso la sfida se si fosse interessato solo di collezioni, senza guardare a quei quartieri di cui il museo è cerniera, ovvero la Sanità e Forcella. In questo senso abbiamo sentito la necessità di essere un soggetto permeabile. Questo processo di apertura si completerà col fatto che l’atrio del MANN, la caffetteria e i giardini saranno spazi fruibili gratuitamente a prescindere dalle collezioni e dal biglietto. Quando tutto andrà a compimento l’abbonamento annuale al MANN oscillerà tra i 15 e i 20 euro per cui le persone potranno venire al museo quando lo vorranno.

Se la visione è far antecedere l’elemento sociale a quello culturale e fare della connessione il cavallo di battaglia, allora ha senso iniziare a parlare di “quartieri della cultura”. Ovvero la visione è quella di considerare Napoli non solo divisa in municipalità (secondo una dimensione amministrativa) ma anche in quartieri della cultura, all’interno dei quali c’è un grande attrattore (es. il MANN, Capodimonte, ecc.) che innesca un dialogo con tutto quello che gravita intorno.

Il MANN dialoga con il Comune, da cui l’accordo per dare in concessione al Museo spazi nella Galleria Principe; con la Regione, da cui l’accordo per avere spazi dell’Istituto Colosimo a nord del museo e poter usufruire del suo giardino; con le università per progetti di ricerca; con circa 35 siti culturali extra MANN tra cui molti gestiti da cooperative di giovani (come le Catacombe); con circa 50 “negozi amici” (numero in crescita) nell’intorno del museo; con le aziende attraverso l’istituzione dell’Advisory board; con i grandi musei del mondo.

Inoltre abbiamo provato, attraverso cartoon, il film, i fumetti, a raccontare il MANN in metropolitana, nei negozi, in aeroporto, ecc. (progetto OBVIA).

L’ultima sfida è quella digitale; la comunità digitale non va sottovalutata. Ad esempio il videogame Father & Son è stato tradotto in 10 lingue e scaricato da oltre 5.000.000 di utenti nel mondo. La sua versione nuova sarà disponibile con un piccolo contributo, così da avere una forma di finanziamento globale a supporto del museo.

Inoltre abbiamo stretto accordi con America, Europa, Giappone e Cina per l’utilizzo del marchio MANN e la produzione di merchandising a marchio MANN con due vincoli: il primo è che non si debba imitare pedissequamente ma piuttosto rivisitare in chiave di design il patrimonio storico artistico; la seconda è l’obbligo dell’utilizzo dell’artigianato artistico campano: le sartorie d’eccellenza, la scuola della seta di San Leucio, i cammei, i coralli, l’oreficeria, la ceramica.

In questo modo si può andare oltre la visione del book shop interno.

Tutto questo in sintesi è:

  1. Trasparenza verso i cittadini – cronoprogramma rendicontato
  2. Responsabilizzazione sociale del museo e soggetto portatore anche di un indirizzo politico
  3. Creazione di connessioni con la città e con il mondo. Strategie per favorire il lavoro dei giovani nel settore culturale – creazione di microimprese grazie al supporto di Invitalia.

DOMANDE

Valeria Romanelli:

In seguito a tutto questo impegno sociale del museo ci sono state richieste di donazione spontanee a supporto della progettazione sociale?

Paolo Giulierini:

Si, c’è stato interesse di vari soggetti sia attraverso l’Art Bonus che in contributi tecnici. Oggi alle aziende non interessa più tanto il discorso del mero restauro di un’opera ma si punta piuttosto a restituire alla comunità anche in accordo con la Convenzione di Faro. Se il museo viene percepito soprattutto come uno stimolo e come un motore di miglioramento sociale, allora c’è grande interesse da parte delle aziende.

Massimo Coen Cagli:

Dal discorso del Direttore Giulierini emergono tre parole chiave:

  1. Community: se non c’è comunità difficilmente c’è fundraising
  2. Produzione di un valore aggiunto: non basta semplicemente essere un grande museo con un importante patrimonio da far visitare; per fare fundraising bisogna produrre un valore culturale, sociale, economico aggiunto alla mera conservazione ed esposizione di opere, anche portando il museo “fuori dalle sue mura”
  3. Cultura come bene comune: in cui direzione del museo, istituzioni, aziende, cittadini sono corresponsabili dell’istituzione (se pur con ruoli diversi.

Questo è il contesto strategico in cui sviluppare il fundraising. Ma vorrei chiedere anche quali sono, a suo avviso, le criticità che si incontrano nel fare fundraising all’interno dell’istituzione, a livello di management, personale, competenze, burocrazia? E quali possono essere i fattori che lo possono facilitare?

Paolo Giulierini:

Innanzi tutto è stato necessario raggiungere gli obiettivi interni, poiché non ci si può rivolgere all’esterno (alle aziende ad esempio) se non dimostri prima di saper spendere bene i soldi. L’efficacia della spesa in alcuni casi è una tenebra poiché non è semplice. Nel caso del MANN è stato necessario assumere delle professionalità esterne per avere le competenze necessarie, senza voler in alcun modo colpevolizzare gli interni che non sono stati attrezzati dalla riforma per affrontare le nuove sfide. In questo senso gli specialisti esterni sono stati anche utilizzati per formare il personale interno che avesse ancora una certa prospettiva lavorativa (infatti molti erano prossimi alla pensione).

Se non hai personale qualificato non riesci neanche a caricare una scheda Art Bonus e a seguire la procedura che, a mio avviso, è ancora troppo complessa e utilizza parole poco comunicative. Forse si può fare una valutazione ulteriore anche sulla defiscalizzazione che potrebbe essere portata al 100% come negli USA. Esistono tanti musei stranieri, come l’Hermitage ad esempio, che ricevono donazioni su isole economiche a beneficio americane per offrire la defiscalizzazione al 100% e poi fanno arrivare i soldi in Russia.

Se l’Art Bonus ha fallito in alcuni ambiti è anche perché non c’era personale preparato. Io vedrei molto bene soggetti esterni che supportano in maniera continuativa gli istituti.

Niccolò Contrino:

2020 e 2021 anni terribili in cui la cultura è stata particolarmente penalizzata con grandi perdite. Com’è andata per voi in termini di donazioni? In alcuni casi infatti si sono registrati fenomeni anticiclici, ovvero il fundraising ha permesso di “tenere a galla” le istituzioni.

Paolo Giulierini:

Nel 2019 il MANN si era assestato su un bilancio di fondi correnti pari a 5.000.000 di euro, 4.500.000 da biglietti, il resto da mostre all’estero, per circa 700.000 visitatori. Nel 2020 il museo ha totalizzato circa 500.000 euro di incassi per 100.000 visitatori. Nel 2021 la perdita stimata è già di 1.500.000 euro.

Nel 2019 tra Art Bonus e altro abbiamo avuto tra 20.000 e 30.000 euro, una cifra che chiaramente non sposta la massa. Nel 2020 niente. Nel 2021 siamo già a 100.000 euro di donazioni in Art Bonus. È un segnale importante che si associa al nostro cambio di rotta nella politica del museo, ovvero la produzione di un valore aggiunto con una ricaduta sulla società.

Noi ci siamo impegnati un po’ più tardi sull’Art Bonus ma la differenza 2019 – 2021 sta proprio in questo cambio di rotta che consiglierei nella divulgazione degli obiettivi da raggiungere. Basta dire “l’obiettivo sta dentro il palazzo” ma l’obiettivo è tangente sia al palazzo che alla comunità che vi sta intorno.

Davide Cedro (dal pubblico):

Il modello MANN può essere esportato in altre città italiane, soprattutto per quanto riguarda il senso di comunità e l’impegno nei quartieri?

Paolo Giulierini:

Il discorso è stato già avviato con la città di Napoli che ha diverse realtà che possono assumere un ruolo analogo a quello del MANN. C’è anche un’interlocuzione con Milano soprattutto per quel che riguarda le realtà dell’interland. Ma più che di modello possiamo parlare di esperienza. Il modello infatti è replicabile solo in parte poiché va tarato e armonizzato nel contesto in cui ci troviamo. Ad esempio, se io fossi il Direttore del Museo di Taranto – e lo sta facendo molto bene la mia collega Eva Degli Innocenti – per me l’obiettivo primario sarebbe quello di fare un grande lavoro di collegamento con tutte le famiglie che hanno avuto esperienze con l’ILVA prima ancora di fare il convegno di studi sulla Magna Grecia. Perché è lì che c’è il nervo scoperto della società ed è lì che bisogna pescare per ricostruire nuove basi.

Sicuramente parlare di connessione e di osmosi è un metodo valido dappertutto, però è ovvio che i contesti con cui si interloquisce sono completamente diversi. Già il pubblico di Capodimonte è diverso da quello del MANN, non migliore o peggiore, ma diverso. Questo è dovuto anche ad un legame storico, visto che Capodimonte era una Reggia mentre il MANN un palazzo nel cuore nazional popolare della città.

Valeria Romanelli:

Sicuramente il fatto di darsi una mission sociale forte è una strategia da seguire. Mi ha colpito ad esempio il Denver Art Museum, un grande museo nella capitale del Colorado che però in termini di patrimonio non ha molto da offrire (basti pensare che quando ci sono stata io le due collezioni principali erano le incisioni di Rembrandt e i vestiti di Christian Dior). Tuttavia sulla base di una mission sociale forte riesce a capitalizzare donazioni davvero importanti. Sul loro the wall of honour il primo donatore vale 25.000.000 di dollari.

(NdR: Mission del Denver Art Museum: Il Denver Art Museum è una risorsa educativa e senza scopo di lucro che stimola il pensiero creativo e l’espressione attraverso esperienze di trasformazione con l’arte. Le sue collezioni riflettono la città e la regione e forniscono modi inestimabili per la comunità di apprendere le culture di tutto il mondo. La missione del Denver Art Museum è di arricchire la vita delle generazioni presenti e future attraverso l’acquisizione, la presentazione e la conservazione di opere d’arte, sostenute da borse di studio esemplari e programmi pubblici relativi sia alle sue collezioni permanenti che alle mostre temporanee presentate dal Museo.)

Nicola Bedogni:

Il 5×1000 è una peculiarità, è una sorta di voto, un riconoscimento della comunità a quel singolo ente. Infatti mentre sappiamo dalle ricerche che i donatori tendono a fare più donazioni a enti diversi, il 5×1000 è one shot quindi, al di là dell’importo che genera, è una scelta che vale come un riconoscimento.

Il 5×1000 in ambito culturale ha un valore medio di 40 euro a fronte di 10 euro di biglietto; con un flusso medio di visitatori tra 500.000 e 700.000 e 7.000 abbonati, se solo l’1% destinasse al MANN il 5×1000 siamo sui 300.000 euro di entrate annuali che non graverebbero sulle tasche dei cittadini, visto che si tratta di una parte delle tasse dovute allo Stato.

Rispetto al MANN che ha già fatto una parte del percorso per il fundraising (creato audience, dato un senso di comunità, riconoscimento da parte della comunità), come mai non state sviluppando il 5×1000 in maniera forte?

Paolo Giulierini:

Abbiamo fatto una prima campagna 5×1000 nel 2020 di cui però ancora non conosciamo l’esito ed ora la stiamo riproponendo a partire dai nostri abbonati. Ma questo è sicuramente un contesto da esplorare.

C’è ancora un altro contesto da esplorare ed è quello che viaggia con una nuova idea di proprietà del patrimonio. Questa è legata anche alla natura del nostro Codice dei Beni Culturali. Sicuramente il patrimonio è dello Stato ma su questa idea, a volte un po’ ingessata, ci siamo anche scontrati con i grandi musei americani, soprattutto sul ritorno delle opere, come se questo ritorni facessero la differenza per il patrimonio italiano. Se ritornasse un pezzo dall’America certo non cambierebbe il sistema dei beni culturali in Italia, anzi di opere ne abbiamo tantissime. Io credo che in questa nuova visione di museo debba essere veicolata l’idea che il patrimonio non è né del museo né dello Stato ma è universale. Ad esempio salvare il Toro Farnese, salvare la Gioconda, salvare la Muraglia Cinese è materia di tutti. Se noi riusciamo a far passare questo messaggio è evidente che potremo anche accedere a fondi da parte di soggetti che sono interessati ad un patrimonio che è comunitario.

Come si fa a far diventare il patrimonio comunitario? Ad esempio si può dire (e ne stiamo parlando con un’università americana) che il nostro deposito Sing Sing ha circa 400.000 capolavori da Pompei ed Ercolano e quindi può diventare un enorme open data anche in 3D a disposizione del mondo.

Se veicoliamo l’idea che il patrimonio è di tutti, evidentemente sarà più probabile incontrare chi è disposto a sostenerlo anche economicamente con donazioni molto importanti.

Il patrimonio va tutelato non tanto nel vincolo ma piuttosto nella messa a disposizione.

Marianna Martinoni:

Un museo come il vostro che è già arrivato in tutto il mondo grazie all’esperienza straordinariamente innovativa di Father & Son, ha già ricevuto donazioni da donatori internazionali, da donatori “overseas”, oppure questa è una frontiera ancora da esplorare?

Paolo Giulierini:

Abbiamo sicuramente avuto il ritorno economico dalle mostre all’estero ma quelle sono una sorta di “fee”. Poi c’è stata una TV giapponese che ha finanziato il restauro del Mosaico di Alessandro. Stiamo parlando del restauro del mosaico più importante al mondo e di un soggetto interessato a divulgare anche gli aspetti di competenze tecnico-scientifiche legate a questa operazione.

Poi c’è il tema legato a quei finanziamenti non diretti ma che arrivano su progetti, legati al patrimonio museale, che sono condivisi anche dal soggetto finanziatore. Tipo quello con una università americana per ricostruire in termini digitali e anche di colore le statue delle Terme di Caracalla (progetto MANN in colours).

Si può fare molto di più. Sono convinto che mettendo a disposizione internazionale il patrimonio si possano trovare infinite risorse. Ma c’è un però, ovvero che il nostro patrimonio bisogna conoscerlo bene. Dobbiamo avere il coraggio di dirlo: buona parte dei musei italiani a volte non sanno quello che hanno nei depositi. È quindi necessario un processo di riordino e digitalizzazione delle opere.

Martina Bacigalupi:

Nel piano strategico 2020-2023 la parola fundraising compare in relazione al Advisory Board. Qual è quindi il ruolo di questo organo? In futuro prevede anche di investire sulla formazione al fundraising del personale interno?

Paolo Giulierini:

Voi sapete che la riforma ha previsto come organi a supporto dell’attività dirigenziale il consiglio di amministrazione, il consiglio scientifico ed il revisore dei conti. In questi consigli al Museo c’erano solo archeologi. Ma i musei del futuro hanno bisogno di almeno una ventina di professionalità oltre l’archeologo, lo storico dell’arte, l’amministrativo. Poiché non avevo, in questi due organi, esperti di management e rapporti col mondo economico, ho sentito il bisogno di creare un soggetto terzo, con persone di chiara fama, che avesse rapporti con il mondo economico, chiedendo loro di fare qualcosa non per il MANN ma per la città attraverso il Museo.

Poi c’è la necessità di formare il personale interno ma ci vogliono professionisti esterni che lo facciano.

Se io potessi spendere meglio i soldi potrei affiancare, ad esempio ai 100 custodi che ho al Museo, un numero importante di professionisti specializzati in diverse tematiche importanti per sviluppare ancora di più il Museo.

Antonio Del Prete:

  1. Qual è il rapporto tra il MANN e la filiera museale napoletana?
  2. A proposito di 5×1000, sappiamo che l’Istituto Pascale di Napoli, eccellenza della ricerca scientifica e della medicina, raccoglie 750.000 euro circa, mentre il suo omologo milanese, il San Raffaele, ne ha 13.000.000,00 di euro, grazie anche al fatto di avere un ufficio di fundraising. Immagina quindi il MANN con uno staff di fundraiser per lo scopo?
  3. Il nuovo merchandising di alta qualità, di cui ci ha parlato, andrà anche a finanziare i “quartieri della cultura”?

Paolo Giulierini:

Napoli ha tanti musei ma con natura molto diversa: statali, comunali, regionali, privati, della diocesi. Innanzi tutto se non si smette di fare la guerra tra comune e regione non si va avanti. Deve finire la storia che magari la Regione non concede un certo finanziamento solo perché quel museo è comunale. La cultura è anche il riflesso dei rapporti tra le istituzioni. Nemmeno la diocesi può sottrarsi da questa sfida.

Ci vorrebbe un tavolo operativo dei musei che garantisse anche l’ottimizzazione delle strategie e dei finanziamenti. Ad esempio l’allestimento di una grande mostra in un museo deve essere un’occasione per tutti gli altri musei.

Si potrebbero fare progetti di fundraising che riguardano reti di musei o obiettivi condivisi. Allora anche il personale potrebbe diventare circuitante e questo permetterebbe di ottimizzare le figure professionali e di spendere meglio i soldi.

Anche sulla questiona Pascale – San Raffaele il discorso è simile. Bisogna svincolarsi da un’ottica politica che mi permette di assumere più infermieri poiché mi porteranno più voti e non mi permette di investire invece su professionisti (interni ed esterni) che non mi porteranno voti ma finanziamenti e progetti sì. Al Museo ho 100 custodi e 40 laureati. Se potessi scegliere invertirei le cifre e prenderei 100 laureati. Ma la sensazione è che la politica abbia sempre un po’ paura che “arrivino le menti pensanti”.

Infine il merchandinsing è importante soprattutto per combattere il fenomeno della produzione cinese. Sappiamo che anche San Gregorio Armeno (NdR: storica strada dei presepi artistici napoletani) è minacciato poiché iniziano ad arrivare pupi prodotti in Cina. Dobbiamo investire nei prodotti peculiari di questa Regione affinché le persone vengano anche perché quel prodotto lo possono trovare solo qui. Non possiamo farci fagocitare dalla “paccottiglia” e ridurci tra qualche anno senza più nulla da proporre. I musei devono essere presidio dell’identità, anche dell’identità di natura commerciale.

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