Well, good luck to you all.
Questo bell’incoraggiamento di ASSIF mi ha fatto venire in mente il discorso sulla radio e sulla televisione che il giornalista Edward Murrow ha tenuto ai colleghi della CBS nel 1958. Edward Murrow era solito chiudere le sue trasmissioni con la frase: Good Night, and Good Luck.
Ecco che cosa ha detto:
“La nostra storia sarà quella che noi vogliamo che sia. E se fra cinquanta, o cento anni degli storici vedranno le registrazioni dei nostri programmi si ritroveranno di fronte a immagini in bianco e nero o a colori, prova della decadenza, della vacuità e dell’isolamento dalla realtà del mondo in cui viviamo. C’è un’allergia insita in noi alle notizie spiacevoli o disturbanti, e i nostri mass media riflettono questa tendenza. Ma se non riconosciamo che la televisione soprattutto viene utilizzata per distrarci, ingannarci, divertirci, isolarci, chi la finanzia, chi la guarda e chi ci lavora si renderà conto di questa realtà quando ormai sarà troppo tardi per rimediare”.
Questa citazione per me significa che il lavoro di comunicare, anche informando, dovrebbe servire prima di ogni altra cosa a mettere in comunione:
- bisogni e risposte
- scopi e azioni
- persone con persone.
Un bel lavoraccio che credo sia anzitutto frutto di una scelta. A maggior ragione se si opera nel terzo settore, al netto di una buona dose di masochismo.
Sappiamo che la scelta è il momento in cui inizia qualsiasi cambiamento che porta con sé inevitabilmente anche una dose di paura, dovuta la rischio, e che è sempre un percorso, un viaggio, molto più intenso di quello di qualsiasi eroe dello storytelling.
Quello su cui vorrei ragionare insieme è non il valore del cambiamento in sé, ma il valore del come si sceglie di cambiare.
Rimanendo nel mio campo che sostanzialmente è quello della narrazione, se guardiamo bene, il viaggio dell’eroe racconta solo la prima parte del cambiamento. Quella della scelta. Una parte bella tosta, certo, decisiva, sicuramente, ma poi non sappiamo come l’eroe gestisce il cambiamento e come lo agisce. Tutti noi invece che in diversi modi ci occupiamo di dono, ogni giorno, abbiamo a che fare con questo ‘come’.
Nel 2020 è stato chiaro per me come il lavoro di giornalista e comunicatrice fosse da una parte scandalosamente dannoso (mi sto riferendo alla gestione della pandemia lato media), dall’altra è stato evidente come il mio lavoro fosse inutile, soprattutto rispetto a molti altri: medici, insegnanti, becchini, corrieri, fundraiser…
In quel periodo dunque ho fatto un’altra scelta. Ho deciso di continuare a fare il mio lavoro, a patto che fosse utile. E questo è il mio come.
Un esempio in proposito è quello di Ma che Razza di Umani?! Il format video e podcast – al momento congelato perché ci servirebbe un fundraiser – che Milano AllNews (webtv di informazione locale, progetto di Spazio Umano APS) ha ideato per rendere generativo il contagio di umani che a un certo punto della loro vita hanno cambiato vita o per cause di forza maggiore oppure per libera scelta. E nel momento della scelta hanno fatto un’altra scelta. Una scelta al quadrato. Si sono detti: Ok, devo o voglio cambiare, e allora che il mio cambiamento sia utile per gli altri, almeno per quel pezzo di mondo che abito. Per la comunità che vivo. Molto più di una resilienza individuale. Una resilienza che si fa collettiva, una resilienza generativa (altra parola chiave da aggiungere alle fantomatiche slide frutto di una scelta al quadrato), fino spesso a diventare civica. Infatti non è un caso che quasi tutti gli Umani intercettati – e ce ne sarebbero ancora tantissimi da incontrare e da mettere in comune – hanno a che fare con il non profit. La risposta alla nostra CTA finale che recita: E tu? Che razza di Umano sei? Potrebbe benissimo essere: Sono un Umano Non Profit.
Dato che anche noi dovremmo essere Umani Non Profit e dato che oggi stiamo parlando insieme di scelta e di utilità, entro nel vivo di questo incontro. Grazie a Fundraising to Say ho deciso di rendere il come del mio cambiamento il più generativo possibile, in base a quello che faccio. A Fundraising to Say, infatti, ho avuto modo di conoscere meglio Giulia Barbieri, una delle fondatrici di Non Profit Factory, il pink team specializzato in fundraising, sostenibilità, comunicazione sociale e progettazione. Ne è nata una riflessione che fra poco porterò qui oggi e un progetto. Insieme a Non Profit Factory, infatti, Milano AllNews dedicherà da marzo una trasmissione settimanale proprio al Terzo Settore, non solo di Milano. Già lo anticipo, ho coinvolto Letizia Bucalo, Valeria Vitali e Valentina Colini (ma verrò a molestare anche altri di voi). Insieme a me sarà ospite fissa e Giulia Barbieri co-progettatrice della trasmissione. Il nostro punto di partenza è stato una riflessione sulle parole del non profit che per me fanno parte del come agire il cambiamento.
Perciò mi piacerebbe iniziare insieme una riflessione pratica sul linguaggio. Una riflessione che conduca a delle scelte, consapevoli, utili e talvolta fuori dagli schemi, sulle parole che usiamo quando comunichiamo le buone cause, sapendo che siamo di fatto ospiti di quei mezzi di comunicazione per cui vale il discorso di Edward Murrow.
Proviamo a scrivere le parole, a cancellarle e a sostituirle
Storytelling Narrazione
Eroe Persona protagonista della propria vita, campione di una buona causa,
mi viene in mente la figura del viaggiatore coraggioso
Raccolta fondi Donazione (ma fundaising e fundraiser devono rimanere)
Benefattore Donatore
Beneficienza
Beneficiario?
Target Pubblico
Obiettivo Scopo
Personal branding Identità professionale
Brand Marca rappresentante da un marchio – segno, impronta…
Partnership Collaborazioni
(quando possiamo italianizzare alcuni termini connotandoli di significato)
Enagement Coinvolgimento (idem come sopra)
Il cambiamento porta all’innovazione, cioè a essere umani in movimento per il bene comune, e l’innovazione – cito Giorgio Taverniti in Google liquido – “nasce dal comportamento e dal bisogno”. Se questo è vero, allora potrebbe essere vero che il profit ragiona sul comportamento delle persone e di conseguenza agisce per incidere sul percepito. Rimanendo nel mio campo che è quello del linguaggio e della narrazione, mi sento libera di dire che secondo me il marketing fa sostanzialmente questo, lavora sul percepito a favore della manipolazione, al netto di tutti i suoi buoni propositi.
Noi professionisti del Non Profit conosciamo tutte le strategie, tutte le tendenze, tutte le pratiche del marketing e dunque anche della manipolazione, ma siamo chiamati a scegliere, senza paura, se e come metterle in pratica. Perché noi del Non Profit possiamo scegliere, seppur con una certa dose di rischio, di concentrarci unicamente sul bisogno a cui non servono manipolazioni.
Perciò mi chiedo e vi chiedo se il bisogno, per diventare azione, abbia per forza bisogno di stratagemmi comunicativi che Edward Murrow dice ci distraggono, ci ingannano, ci divertono e ci isolano? Mi chiedo anche in che misura abbiamo bisogno delle leve del marketing? Io me lo chiedo a partire dal linguaggio che è il mio campo. Rischiando di sembrare troppo filosofica, mi piacerebbe che il cambiamento che in tantissimi casi parte dal non profit, fosse contagioso per il profit. E non il contrario. In una sorta di Umanesimo in continua evoluzione generativa.
Io vorrei, insieme, rischiando, ma senza paura, cambiare insieme in una narrazione collettiva che sia effettivamente utile.
In Newsroom, la serie televisiva di Aaron Sorkin, l’anchorman protagonista è guidato nella sua professione giornalistica da quella che definisce ‘missione civilizzazione’. Che possiamo fare tutti noi anche senza essere super giornalisti.
Good Night, and Good Luck!
Elena Inversetti, giornalista e copywriter Milano All News