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La professione del fundraiser e la gestione dell’emergenza: una riflessione di Simona Biancu e Alberto Cuttica

foto Alberto Cuttica Engagedin

Qualche tempo fa, scrivendo un articolo per un blog internazionale, cercavamo un hashtag in grado di descrivere, quasi a livello visivo, la situazione straniante che stavamo – stiamo – vivendo. Da mobilità totale a totale stanzialità. Dal nostro punto di osservazione di consulenti che collaborano con realtà molto diverse fra loro in Italia e all’estero, notavamo alcune caratteristiche che stavano emergendo nei primi giorni di “clausura” e volevamo rendere un po’ più chiara la situazione ai colleghi stranieri per le settimane future e offrire qualche spunto dal primo Paese, oltre la Cina, in lockdown.

#weirdtimes è stato il termine ricorrente che ci veniva alla mente: tempi strani.

Perché diversamente non si può definirli, con la consapevolezza che questa “stranezza” ce la porteremo dietro per un bel po’ – non sappiamo quanto, ma sarà per un lungo periodo. Sono 3 settimane di mobilità zero, esattamente – anzi, inizia oggi la quarta; e sembrano mesi. Nonostante il nostro lavoro vada avanti come sempre, solo dietro uno schermo da cui continuiamo a parlare con colleghi, clienti, amici, in Italia e nel resto del mondo: non ci sentiamo soli e, anzi, la sensazione è più che mai quella di essere parte di una collettività – che è grande quanto tutto il genere umano e che prova a trovare le coordinate di un perimetro sconosciuto fino a pochi giorni fa.

Proviamo, dunque, a fare qualche riflessione che (speriamo) possa essere utile a chi legge per orientarsi, nella consapevolezza che il nostro – come quello di chiunque – è di per sé un punto di vista soggettivo.

Ci sono due tratti prevalenti che, da qui, osserviamo e vogliamo condividere con chi leggerà: la generosità e lo spontaneismo. Assistiamo ad una prova di generosità che allarga i cuori: donazioni, gesti singoli e collettivi, cura degli altri, attenzione. I primi giorni hanno stupito anche noi: un’ondata di persone desiderose di aiutare, di fare qualcosa, di rendersi utili – per l’ospedale della propria città, per la propria comunità di riferimento, per il proprio condominio, ma non solo.

Vedere le cifre sulle varie piattaforme che ospitano queste iniziative salire ad ogni aggiornamento è stata un’emozione, inutile nasconderlo. Per il gesto in sé, certamente, ma ancora di più in quanto testimonianza che “l’abbrutimento morale” che sembrava caratterizzare la narrazione degli ultimi mesi – con un individualismo esasperato, un approccio basato sul “tutti contro tutti”, un perenne innalzamento dell’asticella dello scontro a tutti i livelli, il clima non era tra i più costruttivi – si è sciolto (quasi) come neve al sole di fronte ad un’emergenza inaspettata e impensabile.

È bello notare, pur in questo clima strano (continua a tornare questa parola), quanto la comunità sia l’unica dimensione che avvolge e protegge, e che ci si salva soltanto insieme. Questa è la parte positiva e, diciamo così, di impressione generale.

Sul lato fundraising questa grande generosità si incanala spesso (non sempre) in un altrettanto grande spontaneismo. Che di per sé è una cosa bella, genera entusiasmo e partecipazione, in una situazione come quella di queste settimane infonde speranza nella capacità di aiuto reciproco che abbiamo.Spingendo la riflessione un pochino oltre il lato emozionale, tuttavia, qualche difficoltà salta fuori. Senza entrare nel merito di casi specifici o in tecnicismi, ne citiamo una tra quelle che abbiamo notato con maggiore frequenza: raccogliere fondi per un ente pubblico è una cosa lodevole – lo diciamo da professionisti che con gli enti pubblici hanno lavorato e lavorano e credono fortemente nel settore pubblico come veicolo di sviluppo inclusivo; occorre, però, verificare a monte – pur nell’emergenza – se poi quell’ente i soldi donati potrà incamerarli, gestirli e, soprattutto, utilizzarli con efficacia e in tempi brevi, quelli dettati appunti dall’emergenza. Se è così, ottimo; se non è così qualche problema sorge. O meglio: si crea un ulteriore aggravio a carico di realtà che sono già in forte sofferenza nel migliore dei casi oppure, peggio, quei soldi rimarranno congelati in attesa procedure amministrative varie. Che non è esattamente quello che si intendeva quando si è avviata la raccolta, naturalmente, ma che si produce se non si conoscono i meccanismi con cui funzionano gli enti pubblici.

Questo non vuol dire non raccogliere fondi per gli enti pubblici: più semplicemente, informarsi prima su vincoli e modalità di gestione, incluse quelle delle piattaforme che rendono possibile tale raccolta. Le emergenze rendono il fundraising uno strumento “pop”, facile da usare e di grande impatto personale e collettivo.

E questo è un bene, s’intende.

Chi lavora in questo ambito, tuttavia, sa quanto il fundraising sia in realtà frutto di un lavoro dietro le quinte fatto di analisi, approfondimenti, test, fine tuning e confronto con la realtà.

Lo spontaneismo è bello ma non può che essere di breve periodo. Attivarsi sull’onda emotiva è una cosa bella e grande e il nostro compito di fundraiser è stimolare questo “ingaggio”. Fare in modo che non si tratti di una scintilla che si spegne presto, però, ma di un fuoco che continua a bruciare, è un po’ più complesso, richiede visione e professionalità.

Ecco, è questo il punto: non ci si improvvisa.

Noi crediamo profondamente che donare sia e debba essere prima di tutto un gesto spontaneo, facile, a maggior ragione di fronte ad una difficoltà; altrettanto profondamente vediamo, nella quotidianità professionale, quanto è più complesso mantenerla, quell’emozione che porta alla donazione, anche quando l’emergenza è terminata.

Un esempio, tra i tanti che si potrebbero fare, tratto da una situazione vissuta direttamente: qualche anno fa abbiamo lavorato con una organizzazione che ha dovuto lavorare ed occuparsi di emergenze, suo malgrado, per molti anni; una volta stabilizzata la situazione, la preoccupazione maggiore è stata quella di perdere i donatori che, di fronte alla normalità del quotidiano, si sarebbero sentiti meno coinvolti. E lo sforzo – grande, di tutti, in quel frangente – era stato proprio rendere “straordinaria la normalità”.

Ancora una volta, dunque, ci teniamo a fare il punto sulla necessità di professionalizzazione che richiede fare questo lavoro. Che non vuol dire stare dietro una scrivania a compilare fogli di calcolo e verificare numeri ma, al contrario, avere consapevolezza che quei numeri dovranno dare potenza alla causa, dovranno rappresentarne la dimensione pur non potendone (per fortuna!) sostituire l’intensità.

Le energie che emergono in questi giorni sono, dal nostro punto di vista, un’ottima base su cui costruire la narrazione della nostra professione per il futuro. E questo, a nostro parere, è un punto per così dire “programmatico” per i fundraiser (lo diciamo in un’accezione allargata a tutti coloro che hanno a che fare con il fundraising) italiani.

Accade spesso che si lamenti il mancato riconoscimento – non giuridico, ma “sociale” – della nostra professione: l’abbiamo fatto anche noi, spesso utilizzando l’ironia per sdrammatizzare tutte le volte in cui abbiamo colto negli sguardi altrui, nel sentire di cosa ci occupiamo, un’espressione del tipo “potevo farlo anch’io” (sfidiamo chiunque a non essersi sentito così, almeno una volta, nella sua vita professionale). E aggiungiamo una nota personale: ancora questa mattina di fine marzo ci sono arrivate ben due richieste: la prima ci chiedeva di aderire ad un portale per consulenti finanziari (a seguito di analisi dei nostri profili Linkedin), la seconda voleva premiarci tra i migliori negozi online (a seguito di analisi del nostro sito web).

C’è da ridere? Sì, ma magari anche no.

(Al di là di farci domande sull’efficacia della nostra comunicazione) Quello che ci dà da pensare e su cui riteniamo occorra lavorare come collettività di fundraiser – attraverso ASSIF in primis e, in generale, sentendoci parte di una collettività professionale, ciascuno con le proprie caratteristiche ma accomunati da una visione professionalizzante – è la necessità, finita l’emergenza, che di fundraising si continui a parlare come di una professione, non di un singolo gesto lodevole ma limitato che difficilmente (pur portando sollievo) cambia le situazioni.

Perché è questo che ci diciamo tutti giorni, no? Fare fundraising vuol dire cambiare in meglio quello che non funziona, qualunque cosa essa sia. E per farlo occorre una visione di lungo periodo, perché è il cambiamento non è cosa che accada per caso, dall’oggi al domani. Richiede perseveranza e tenacia. Capacità di lasciarsi “toccare” dalle cause ed emozionarsi e, al tempo stesso, avere in mente gli obiettivi e lavorare con costanza per raggiungerli.

Questo periodo porterà con sé molti cambiamenti, ne siamo convinti.

Nella percezione che abbiamo della nostra società, che ci sembrava inattaccabile e invece ha tutte le fragilità dell’essere “terreni”. Nell’approccio che abbiamo agli “altri”, spesso basato sul “cerca le differenze” invece che “trova i puntini di congiunzione”. Nella constatazione di un punto di non ritorno in un modello di sviluppo basato sulla crescita e che, forse, deve partire da presupposti differenti.

L’auspicio è che il senso di comunità, quello a cui ci stiamo aggrappando tutti, tutti i giorni di questo periodo fatto di giorni strani, resti uno dei regali di un periodo complicato, difficile, doloroso, e venga coltivato in una quotidianità nuova. Che sia nuova linfa vitale anche per i fundraiser, per il Terzo Settore in generale, perché diventi uno degli attori strategici al tavolo del disegno sociale e non mero fruitore di provvedimenti: è quello che vediamo quando lavoriamo – dal vivo o a distanza – in altri Paesi europei, è quello che ci auguriamo per il nostro Paese perché i tempi e le persone che “fanno” questo settore sono maturi.

 foto Simona Biancu Engagedin

Per maggiori informazioni visita il sito di ENGAGEDin: https://www.engagedin.net/

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