Approfondimenti utili per coloro che praticano la professione o vorrebbero scoprire le opportunità del Fundraising .
“A tu per tu con il socio ASSIF”
Dietro ad ogni socio ASSIF, c’è un fundraiser con tante storie da raccontare.
Stavolta vogliamo presentarvi Jara Vernarecci, consigliera Assif delegata alla membership. In questa intervista, oltre a svelare piccoli segreti che riguardano la professione di fundraiser, ci parlerà anche di questa emergenza e di come sta affrontando il suo lavoro insieme alla sua organizzazione.
1. La professione di fundraiser, una scelta o un caso?
Una scelta casuale all’inizio, diventata ben presto una scelta consapevole. La prima volta che ho sentito parlare di raccolta fondi è stato nel 2007. Fresca di laurea e dopo alcune esperienze all’estero, mi affacciavo al mondo del lavoro alla ricerca del “vero lavoro”. È stato in quel preciso momento che sul mio cammino incontrai un’organizzazione non profit che mi propose di curare i rapporti con le aziende del territorio, di fare insomma corporate fundraising. Nell’incertezza di come svolgere al meglio il compito affidatomi, ho iniziato con l’impeto delle prime volte, la curiosità, la voglia di capire e scoprire quanto più possibile questa professione per me tutta nuova. Ho iniziato da lì e quello, come dico spesso, è stato il punto di non ritorno. Il mondo che stavo sperimentando mi piaceva molto, mi intrigava e le sue trame mi hanno totalmente catturata.
2. Quali sono secondo te le skills più richieste nella professione di fundraiser?
La professione di fundraiser richiede un mix di diverse skills da possedere. Non solo. Come il barman sceglie e miscela sapientemente gli ingredienti migliori per elaborare il cocktail perfetto che soddisfa la sua esigente clientela, così il fundraiser deve saper individuare e dosare le skills di volta in volta necessarie per realizzare la sua buona causa. In base al tipo di fundraiser che si è (consulente o interno) al tipo di ente con cui si lavora (grande, media, piccola o piccolissima organizzazione) e al ruolo che si ricopre (fundraiser tuttofare o tecnico/specializzato) ci sono certamente delle skills particolari che non possono mancare. Credo però che alcune abilità siano generali e trasversali a ogni fundraiser che si chiami tale. Per citarne solo alcune, il problem solving per ovviare i piccoli, grandi problemi che possono accadere (e accadono) nella nostra programmazione, nelle nostre campagne o nei nostri eventi. Avere la prontezza di trovare la soluzione migliore o mettere in campo un piano B fa la differenza. Oggi più che mai ci rendiamo conto di questo. Altra skill è la capacità di comunicazione: bisogna saper dialogare con tutti gli attori coinvolti nelle nostre attività a tutti i livelli. Dobbiamo saper parlare con il board, con i volontari e con i donors, di tutti i tipi. C’è poco da fare, il nostro lavoro deve arrivare e arriva solo se lo sappiamo comunicare. E poi citerei una terza skill, la capacità di mediazione, valida in particolar modo per il fundraiser tuttofare – ma non solo – che deve saper conciliare tutte le istanze, dalle pretese del presidente alle richieste del volontario passando per i bisogni del donatori. Devo continuare? Curiosità, determinazione, capacità di analisi e di sintesi.
3. Quando sei entrato in contatto con Assif per la prima volta e cosa vuol dire per te far parte dell’Associazione Italiana Fundraiser?
Sono entrata in contatto con ASSIF grazie a una collega che per prima me ne parlò. Credo fosse il 2010. Stavano nascendo i gruppi territoriali e colsi subito l’opportunità di associarmi per frequentarli e rimanere così aggiornata sui temi della raccolta fondi, confrontandomi con fundraiser che vivevano nella mia stessa regione e con cui potevo parlare quindi lo stesso linguaggio. Ancora oggi far parte di ASSIF è per me un modo di sentirmi parte di un gruppo, per continuare a formarmi e confrontarmi con tanti colleghi, molti dei quali diventati ormai amici. Rimango e mi impegno attivamente in ASSIF perché lo sento un dovere nei confronti di una professione che nel nostro Paese ancora non è conosciuta come dovrebbe essere. Credo che le cose non cadano dall’alto per così dire, ma siano anche determinate dalle nostre azioni e dai nostri sforzi.
4. Che consigli daresti ad un giovane che vorrebbe intraprendere la carriera del fundraiser?
Intanto di ritenersi fortunato, perché fa una professione meravigliosa. E che per quanto bella e gratificante, non è scevra da difficoltà e problemi da risolvere. Di prepararsi quindi ad affrontare tante gioie quanti dolori. Di essere sempre curioso e continuare a formarsi sempre, rimanere aggiornato, confrontarsi con altri professionisti. Insomma, di non considerarsi mai arrivato. È anche questo che ci mantiene sempre giovani.
5. Dove porteresti a cena un major donor?
Lo inviterei in un luogo dove possa sperimentare e conoscere al meglio la realtà che rappresento e le persone che la compongono. Il “dove” è importante, ma non così tanto come scegliere la giusta compagnia. In uno degli ultimi pranzi fatti, il mio major donor ha scelto il suo locale preferito, dove si sentiva a casa. Io ho portato un volontario e un membro del board per condire con il giusto sentimento il progetto. Per completare il tutto un buon vino non può mancare.
6. Dì una cosa nel dialetto della tua regione a tutti i fundraiser?
“Chi magna da solo se strozza” detto di chi non è solito dividere con gli altri ciò che ha, lo vedo nella duplice valenza. Un monito a essere comunità. Un invito a chi possiede (know how, tempo, beni e denari) a dare il proprio contributo alla comunità che sente propria per farla crescere. Un appello a tutti i colleghi fundraiser a condividere i propri saperi e mestieri.
Un’ultima domanda legata al periodo che stiamo affrontando. A causa dell’emergenza corona virus, stiamo vivendo un momento di grande cambiamento e ri-progettazione del nostro lavoro di fundraiser. Tu come la stai vivendo, cosa è cambiato e cosa consiglieresti di fare ad un giovane collega che magari non ha mai affrontato “il piano B”?
Stiamo vivendo un periodo straordinario e credo che nessuno di noi fosse preparato per affrontare un’emergenza così grande. Ma tutto ciò che ci capita è da cogliere come una sfida, un’occasione per ripensarsi, riprogrammando anche le attività lavorative su cui si era concentrati. Questo momento di crisi è capitato tra l’altro in uno dei momenti dell’anno di maggior intensità in termini di raccolta fondi; la Campagna di Pasqua per molti di noi rappresenta addirittura il culmine della raccolta fondi. Per Fondazione ANT, la realtà in cui lavoro, si concretizza in particolare in una estesa e capillare manifestazione di piazza che, per chiare ragioni, quest’anno è completamente saltata. Affrontato il primo momento di destabilizzazione e, diciamolo, di panico, è subentrato l’atteggiamento propositivo in cui, non volendo e non potendo abbandonare la campagna, si è iniziato a pensare a come poterla realizzare comunque. Tutto quanto era fatto in presenza di un elaborato sistema di organizzazione e logistica che ha lasciato il posto a una campagna online incentrata principalmente sull’attività istituzionale, che nel nostro caso, è continuata e anzi si è intensificata. Si sono messi in campo strumenti prima poco praticati, abbiamo fatto – finalmente – parlare i nostri medici e infermieri, mentre i nostri volontari, sempre attivi e disponibili, anziché presenziare ai banchetti, si sono messi ancora più in gioco coinvolgendo ognuno le proprie cerchie di contatti. Ovviamente non sappiamo ancora come andrà a finire, ma sicuramente abbiamo scoperto un modo nuovo per essere presenti nel territorio, anche se non fisicamente. Il mio consiglio, sempre, è aprire la mente e provare ad esplorare il potenziale che ogni realtà ha e che molto spesso non viene sfruttato al massimo.
A cura di Eleonora Mancinotti, socia ASSIF
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