Approfondimenti utili per coloro che praticano la professione o vorrebbero scoprire le opportunità del Fundraising .
“A tu per tu con il socio ASSIF”
Dietro ad ogni socio ASSIF, c’è un fundraiser con tante storie da raccontare e questa è la testimonianza di Claudia Costa, Responsabile Fundraising e Comunicazione di Isla ng Bata – L’isola dei Bambini.
1. La professione di fundraiser, una scelta o un caso?
Un caso. Ho studiato giornalismo e quello della comunicazione è stato da sempre un settore affascinante per me e anche molto sottovalutato. Una volta conclusi gli studi ho alternato momenti di lavoro a momenti di ricerca e proprio durante questi ultimi, avendo molto tempo libero, ho iniziato a fare volontariato. Così ho conosciuto l’associazione in cui, oggi, lavoro ed in cui ho incontrato (e successivamente approfondito) il mondo del fundraising.
2. Quali sono secondo te le skills più richieste nella professione di fundraiser?
Credo che l’attivismo (in qualunque campo e per qualunque causa) e la capacità di relazionarsi e fare rete (e qui torniamo alla comunicazione) siano requisiti fondamentali per ogni fundraiser. A questi aggiungerei: flessibilità e una buona dose di “problem solving”.
3. Quando sei entrato in contatto con Assif per la prima volta e cosa vuol dire per te far parte dell’Associazione Italiana Fundraiser?
Ho conosciuto ASSIF grazie ad una collega molto speciale. Non conoscevo l’associazione e non avevo molte informazioni su quella che era la professione del fundraiser. Grazie a lei ho compreso le mille sfaccettature di questo lavoro, poi ne ho approfondito lo studio, mi sono formata su quello che era il campo di maggiore interesse per me e proprio grazie ad ASSIF ho avuto modo di confrontarmi con molti professionisti del settore, apprendendo un’infinità di cose. Per me ASSIF è proprio questo, una rete che mette in circolo competenze, idee, impegno ed innovazione.
4. Che consigli daresti ad un giovane che vorrebbe intraprendere la carriera del fundraising?
Di armarsi di molta pazienza! Il settore è interessantissimo e ricco di mille sfumature e bisogna tararsi su ognuna di esse. Gli direi di non perdere mai la speranza e neppure l’ottimismo, neanche quando il presidente di turno gli dirà che investire nel fundraising non serve a nulla. E soprattutto gli direi di non smettere mai di formarsi, confrontarsi e mettersi in gioco. E di non perdere mai di vista la causa.
5. Dove porteresti a cena un major donor?
Se ci fosse una sede adatta, proprio lì dove l’associazione opera. Organizzerei qualcosa proprio per il sostenitore, tenendo conto di una sua passione o di un suo gusto particolare. Lo scopo è farlo sentire speciale, a prescindere dal luogo, perché non si senta un numero o peggio ancora un bancomat, ma parte della causa e del progetto.
6. A causa dell’emergenza Coronavirus, abbiamo affrontato nuove sfide e grandi cambiamenti dal punto di vista professionale. Quali difficoltà hai riscontrato lavorando con le organizzazione del non profit e come hai affrontato questo periodo?
La difficoltà principale è stata l’impossibilità di incontrarsi. Gli eventi solidali, le occasioni di scambio, guardarsi negli occhi. Fortunatamente l’associazione in cui opero ha sostenitori molto fidelizzati ma per coinvolgere i nuovi è stata necessaria molta creatività e – torno sempre lì – una comunicazione efficace, trasparente e adattabile ad ogni cambiamento. Il digitale ha aiutato tantissimo, ma è stato importante anche non perdere il contatto, cercare di non allontanarsi nonostante il distanziamento forzato.
7. Dì una cosa nel dialetto della tua regione a tutti i fundraiser?
Io faccio parte del gruppo Lazio ma la mia regione di nascita è la Sicilia, perciò a tutti i fundraiser dedico questo modo di dire, utilissimo nei momenti di sconforto: “Chiù scuru i menzannotti non po’ fari!”.
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